martedì 21 febbraio 2006

Storie di stazione

Io non lo so che cosa aveva dentro. Ma era una persona speciale, sicuro. La prima volta che lo incontrai sarà stato sei anni fa, anno più anno meno. Alla stazione di Pisa. A prima vista sembrava un clochard come non ce ne sono più, un po’ filosofo e un po’ avvocato. Ma quella era solo stupida poesia spicciola di un ingenuo ragazzino, uno a cui ancora “i vecchi imbriaghi sembravano la letteratura”. Ma la poesia evapora presto quando vivi per strada; basta una sera di freddo tagliente con la polizia che ti fa sgomberare dalla carrozza di un vecchio intercity e ti risbatte sui binari ghiacciati. Mario era un povero disgraziato. Un alcolista scacciato da casa, senza più famiglia, senza più speranza. Quando era sobrio aveva una grande capacità oratoria, che utilizzava per conquistare o attaccare i volontari che gli portavano la cena in stazione. Per lui, forse, rappresentavamo “i normali”. Io credo di non essergli mai stato simpatico: sbarbatello meno che ventenne, avevo paura del suo sguardo e delle sue domande. Forse, in gran segreto, mi sentivo in colpa per la sua sofferenza. Mi chiamava “peppino”, come faceva per quelli di cui non si ricordava il nome, e giocava a stuzzicarmi. Una volta ci disse che sarebbe voluto tornare a casa per qualche giorno, a incontrare la moglie ed il figlio, e qualcuno di noi lo incoraggiò: passò dei giorni a cercare dei vestiti decenti, un posto dove fare la doccia e ripulirsi. Alla fine prese coraggio e partì, vestito e rasato di fresco, biglietto in mano, forse pieno di speranza. Lo incontrai una settimana dopo, ubriaco fradicio, neanche si reggeva in piedi. Quando era ubriaco piangeva sempre, e mi chiedevo perché la vita può essere così cattiva con qualcuno. Sono passti degli anni ma ancora non lo ho capito. Addio Mario, e scusami se ora racconto la tua storia a due o tre amici: ma lo sai che peppino è sempre il solito sbarbatello, e tu anche oggi sei riuscito a metterlo in difficoltà.